Iran: turning point di Trump

Come sapete il vostro caro scrivente è da anni convinto che le mosse dell’Iran in Medio Oriente siano un grosso, grossissimo problema. Ed è per questo che in questo primo mese del 2020 ho molto apprezzato la fermezza e l’efficacia dell’azione del Presidente Americano Trump su un argomento così scottante. Occorreva da molto tempo segnare il passo in direzione opposta a quanto stava accadendo. E fino alla fine del vecchio anno era sembrato che sarebbe stata necessaria la forza per cambiare verso alla situazione. Ma ciò che è successo dall’uccisione del generale Soleimani in poi ha rappresentato tutto questo e in un anno elettorale questo aspetto vale doppio.

Da destra Abu Mahdi al-Muhandes e Qasem Soleimani.

Perchè ci vuole fermezza con l’Iran

Il regime degli Ayatollah iraniani non gode ormai da anni di ottima salute. Le difficoltà economiche interne hanno progressivamente schiacciato la classe media del paese ed eroso in maniera assai tangibile il potere d’acquisto. Inoltre, a causa delle sanzioni, l’estrazione di petrolio è limitata dalla componentistica degli impianti ormai vecchia e dalla mancanza di parti di ricambio. Questo oltre agli stessi limiti sulla vendita che impediscono di introitare denaro ai Pasdaran, le guardie della rivoluzione fedeli all’autorità religiosa.

I soldi degli Iraniani non vengono usati per le necessità civili del paese bensì invece per finanziare la galassia di milizie paramilitari che fanno capo al regime in tutto il Medio Oriente. Questi soldi hanno subito un incremento dopo il famigerato accordo JCPOA del 2015, in seguito al quale sono stati sbloccati centinaia di miliardi di dollari di fondi esteri Iraniani bloccati nei conti esteri. Questo ha a sua volta permesso di finanziare una poderosa campagna bellica da parte delle milizie stesse, tra cui: gli Houti in Yemen, Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, le milizie sciite di Muhandes (che vedete in foto) in Iraq e quelle alleate di Assad in Siria.

Si tratta di un progetto egemonico che l’Iran persegue dal 79. Un progetto portato avanti secondo lo schema della “mezzaluna sciita” in cui la coordinazione ha un aspetto fondamentale. Qui entra in gioco Quasem Soleimani, ovvero il generale che ha ideato questa strategia e l’ha messa in pratica. E’ a lui che si devono i successi Iraniani nella regione in questi anni. Ed è sempre a lui che si devono alcuni degli ultimi eventi nell’area. Su tutti il bombardamento della raffineria della ARAMCO in Arabia Saudita, effettuato con droni e missili. Infine si aggiungano anche i più di 600 soldati USA uccisi dalle milizie sciite in Iraq negli ultimi anni.

Uccidere Soleimani era necessario

Dai ragionamenti di cui sopra, deriva che era necessario togliere di mezzo quest’uomo anche per ciò che significava in termini strategici oltre che per un esigenza morale. Va detto anche che l’intenzione di Trump non era quella di condurre azioni militarmente offensive contro l’Iran ma solo esercitare la massima pressione possibile. Tuttavia, in geopolitica non esiste niente che possa interporsi davvero tra due parti in causa, dunque il confronto è sempre diretto. A meno ovviamente della presenza e dell’intromissione di attori esterni, ma non è questo il caso. La strategia USA, come dicevamo, è quella di esercitare pressione in tutti i modi possibili ma non siamo di fronte ad un nuovo Obama. Il successo di Trump è proprio dovuto al fatto che l’atteggiamento in politica estera è tornato ad essere assertivo e non più remissivo come in precedenza.

Pressione o no, ci sono dunque limiti che gli avversari non devono superare mai, pena una rappresaglia proporzionata al danno subito. L’uccisione di Soleimani dunque, è esattamente questo. Finanziamenti ai terroristi, azioni destabilizzanti, soldati Americani morti, droni abbattuti, alleati colpiti, caos nella regione. E dulcis in fundo, il tentato assalto dell’Ambasciata Americana a Baghdad, una riedizione di quello del 79 a Teheran. L’Iran ha superato il limite e la contropartita non poteva che essere Soleimani.

Colpo decisivo

Di questo si tratta. E’ stato eliminato il generale più preparato e pericoloso tra quelli a disposizione del regime. E si tratta anche di quello che aveva la miglior visione strategica tra i generali dell’Ayatollah. Voi andreste in guerra senza il vostro miglior comandante? Già questa semplice asserzione fa capire quale possa essere la conseguenza nella disputa tra Iran da una parte e USA e alleati dall’altra. A riprova di questo, le grandi parole di vendetta e i proclami seguiti alla morte di Soleimani hanno prodotto a malapena una misera “missilata” che non ha praticamente fatto danni e non ha ucciso nessuno. In pratica si è trattato di un azione dimostrativa volta a salvare la faccia con gli irriducibili del regime ma che in pratica corrisponde ad una mezza resa.

L’Iran, come dicevamo, è un paese in crisi, sfinito, pieno di problemi economici e sociali, sconvolto ormai da mesi da rivolte e scioperi e la cui popolazione vuole un cambiamento tangibile al più presto. Non può sostenere una guerra, men che meno una con gli Stati Uniti. Anche perché significherebbe molto probabilmente la fine stessa del regime. Adesso quindi la situazione in medio oriente volge a favore degli Stati Uniti, i quali, con questa azione, hanno ristabilito la deterrenza persa con Obama e sono ora e più che mai in posizione di forza per costringere Teheran ad un vero accordo di pace.

Perché con buona pace degli odiatori dell’America di professione niente terza guerra mondiale. Anzi, niente guerra in generale. Trump ha gestito ottimamente la situazione e con il minimo sforzo ha portato a casa un grande risultato. Ora la palla sta agli Iraniani che tra l’altro dovranno anche scontare la figuraccia mondiale dell’abbattimento dell’aereo di linea sopra Teheran.

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